Sarà davvero importante continuare a scavare?

Sarà davvero importante continuare a scavare?

Il lavoro dell’archeologo è inevitabilmente legato, nella realtà e ancor più nella percezione comune, allo scavo. Le recenti tecnologie però rischiano di indebolire questa associazione ad oggi ancora indissolubile.Da sempre l’archeologia si è avvalsa delle tecnologie più innovative, così come da sempre la stessa archeologia è stata foriera di “bisogni” che hanno stimolato applicazioni tecnologiche da usare “sul campo”.Oggi, però, una delle frontiere tecnologiche più stimolanti non è finalizzata alla sola costruzione di strumenti per comprendere il mondo in cui viviamo, ma ha come obiettivo quello di ricostruire il mondo che abitiamo, per indagarne in modo più dettagliato il funzionamento attraverso il suo clone digitale.


L’avanzamento di tali tecnologie è stato inesorabile e tutto fa pensare che nei prossimi anni sarà ancora più impetuoso. Ciò vale nella nostra vita quotidiana, ma vale anche in quasi tutti i campi di ricerca. Per alcune discipline, e l’archeologia tra esse, lo sviluppo futuro di questi strumenti potrebbe sollevare molto più che riflessioni tecniche. Non è lontano il momento in cui si potrà, applicare in larga scala un processo che preveda l’identificazione di nuove aree di interesse archeologico attraverso immagini satellitari o droni; l’esplorazione di tali luoghi attraverso robot in grado di muoversi autonomamente nel sottosuolo in grado di registrare dati per realizzare mappe 3D; sviluppare tali dati per la ricostruzione digitale dei luoghi, anche con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, e fornire una ricostruzione navigabile in modalità virtuale del territorio. A ben vedere, molte di queste azioni, in realtà, sono già state condotte: ad oggi sono “progetti”, ma presto potrebbero divenire “prassi di lavoro standard”. Se tale condizione dovesse avverarsi, il dubbio amletico dell’archeologo: scavare o non scavare, diverrebbe ancora più emiblematico, perché a quel punto, ci si troverebbe quantomeno di fronte ad un trilemma: scavare, non scavare, o non scavare ma rappresentare virtualmente. Eppure si sa che a volte le scoperte eccezionali sono il frutto imprevisto dello scavo di un'infrastruttura.


Lo scavo è un’operazione importantissima non solo sotto il profilo pratico, ma anche nella sua dimensione più simbolica: scavando, si riportano alla luce tracce del nostro passato che, per una serie piuttosto ampia di ragioni, sono state sepolte nel (o dal?) tempo.
Scavare tuttavia ha anche una valenza importante sotto il profilo della valorizzazione territoriale ed economica. Oggi, per il modello di produzione del valore archeologico principalmente diffuso in Italia, lo scavo è un’azione di ricerca, condotta principalmente da istituzioni accademiche, e che coinvolge studenti, e molto spesso ricercatori e docenti universitari. Meno frequente è la circostanza in cui l’azione di scavo archeologico è invece un’azione che nasce dalla volontà di una giurisdizione con l’obiettivo di valorizzare la propria storia, o valorizzare la propria economia associata alla cultura.
Il modello “scavare o non scavare” è dunque soltanto in parte ad oggi resistente. Se si sa quel che c’è, si scava e si ricopre. Se si scava per altre ragioni, si scava e si scopre.L’estensione delle nuove tecnologie, invece, potrebbe portare ad un ragionamento ben diverso. Un ragionamento che, a partire dalla scoperta di potenziali aree archeologiche nel sottosuolo, e dalla comprensione di cosa tali aree possano restituire all’umanità, si ponderano tutti gli effetti che l’effettivo scavo possa avere sul territorio nella propria interezza. Valutare, quindi, a livello “organico”, se le operazioni di scavo possano generare alla comunità un valore aggiunto, sia scientifico che territoriale nel suo complesso.


Un Comune in cui siano assenti aree archeologiche potrebbe infatti decidere di avviare le attività di scavo e valorizzazione dell’area identificata, mentre un Comune nel cui territorio sono già presenti aree archeologiche analoghe (per periodo e funzione e per conoscenza da esse derivante) alle nuove aree identificate, potrebbe ritenere che il valore aggregato (scientifico, logistico, economico, sociale e culturale), dello scavo possa essere in realtà minimo, rispetto agli sforzi e alle eventuali implicazioni che lo scavo comporta. Potrebbe, in altri termini, decidere che l’area può restare lì dov’è, e preferire fornire ai propri cittadini un video 3d navigabile, che possa essere fruito su un visore, o mediante smartphone. In molti considererebbero tale circostanza in modo negativo, ma considerando le risorse a disposizione, e definendo i modelli che aiutino le amministrazioni ad assumere in modo informato le proprie decisioni, la riflessione si sposterebbe dal valore meramente scientifico ad un valore culturale più esteso, e alla possibilità di concentrare risorse e sforzi per rendere pienamente vive e vissute le aree archeologiche già esistenti. Chiaramente, una tale azione lederebbe alcuni interessi e ne promuoverebbe altri, e andrebbe in ogni caso “normata”, in termini di spesa minima da parte dei Comuni per il patrimonio archeologico, onde evitare che la decisione sia “spendere o risparmiare” o conservare un pasaggio. Eppure, pur non essendo possibile stabilire quale delle tre scelte potrebbe essere realmente corretta in modo aprioristico, il lato positivo è che lo scavo verrebbe percepito in modo differente dalla comunità. E valutato nella totalità delle sue dimensioni.
Sarebbe, senza dubbio, un passaggio importante, nel rapporto tra territorio e archeologia. E tra comunità e rinvenimenti.

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