Una coscienza che visualizza e pensa in tre dimensioni. Una condizione per nulla scontata e comune tanto da far dire ad Adolf Loos nel 1913 «sono pochi gli architetti che oggi lo sanno fare». A riguardo la geometria descrittiva rimane essenziale. Le tecnologie di modellazione digitale, gli elaboratori elettronici hanno però supportato, facilitato e rivoluzionato in maniera straordinaria negli ultimi decenni le attività di chi da questo requisito non può assolutamente prescindere perché decisivo per svolgerle nel proprio ambito di studio, di ricerca, di lavoro. Ambiti, per quel che ci riguarda, che vanno dalla progettazione agli studi territoriali e a quelli sul patrimonio culturale. E più in generale attraverso la Real-Time Computer Graphic dell’Entertainment l’interazione con simulazioni informatiche tridimensionali è oggi poi divenuta aspetto consueto dell’esperienza quotidiana di moltissime persone, i giovanissimi innanzitutto.
In questa scia nasce e si sviluppa il 3D printing, la replica fisica degli oggetti modellati virtualmente grazie agli elaboratori. Non solo visualizzare e pensare in tre dimensioni in particolare, per quel che ci riguarda, il patrimonio culturale nelle sue modificazioni attraverso il tempo e nei vari palinsesti ambientali ma il poter riprodurlo e contestualizzarlo con estrema precisione. Una tecnologia straordinaria, preziosa, indispensabile in tempi di distruzione accelerata e per più cause del patrimonio culturale.
Nel settore del patrimonio culturale il 3D printing non può limitarsi a fornire una replica “fotorealistica” dell’oggetto e del contesto. Se così fosse saremmo di fronte a un simulacro per dirla con Baudrillard. Quello che cerchiamo e ci serve è piuttosto una replica dell’originale con similarità di comportamenti e di prestazioni su cui possano dispiegarsi le nostre attività percettive e concettuali sperimentando ogni possibile variazione nello spettro delle condizioni di osservazione, in una interazione fisica continua tra osservatore e oggetto. La controparte virtuale dell’oggetto permette già di entrare in profondità nel modello ed esplorarlo, la controparte fisica replicata deve consentire di viverlo. Un caso applicativo di grande interesse, risalente a gennaio di quest’anno, di uso della tecnologia della prototipazione rapida unita a ingegneria inversa e realtà virtuale e finalizzato al restauro architettonico e alla valorizzazione del Palazzo Ducale di Mantova è ospitato in questo numero di Archeomatica. Metodologie e approcci consolidati in connessione con le tecnologie innovative di Time Compression hanno consentito nuove modalità di intervento non invasive.
Il 3D printing non è però solamente una straordinaria e promettente traiettoria tecnologica avviatasi già oltre mezzo secolo fa. Le macchine CNC esordiscono infatti negli anni cinquanta del secolo scorso, il computer-aided design e l’aided manufacturing a uso industriale due decenni più tardi, l’additive manufacturing a inizio anni ottanta. La forza del suo impatto risiede soprattutto nel manifestarsi, grazie alle possibilità offerte dalla rete, quale movimento socioculturale. E di questo dobbiamo tenere conto quando lo contestualizziamo nel settore delle tecnologie applicate ai beni culturali e ne cerchiamo di pensare le relazioni con le leggi, i regolamenti, la proprietà intellettuale, il problema della certificazione di autenticità, quello di conformità all’originale con le conseguenti incombenti normative restrittive che si annunciano all’orizzonte. Animano il 3D printing infatti realtà come il mondo hacker, le comunità open source, il movimento maker che si riconosce nel motto Do It Yourself.
Sono stati proprio gli hacker alla scadenza di alcuni brevetti per le attrezzature per la stampa in 3D a dar luogo a un’esplosione di sperimentazioni che hanno permesso di sviluppare in open source software e hardware user-friendly anche per chi non ha competenze informatiche specifiche superando così i principali ostacoli che si frapponevano allo sviluppo di questa tecnologia: gli alti costi, la mole delle apparecchiature, la complessità dei software necessari al funzionamento. Si tratta di attori che intorno al 3D printing stanno dando vita a quello che Yochai Benkler e Helen Nissenbaum già un decennio orsono definirono la Commons-based peer production, un nuovo sistema produttivo in cui la creatività di una moltitudine di persone si coordina attraverso la rete in progetti estranei a logiche di organizzazione gerarchica e/o a processi di progettazione e di decisione centralizzati. In questo momento il movimento sta sviluppando software e hardware in grado di stampare anche circuiti elettrici e su supporti metallici con una diffusa proliferazione di siti che mettono a disposizione gratuitamente progetti pronti per essere stampati o eventualmente modificati. Alcuni esempi: la rete mondiale dei Fab Lab gestiti da università o da organizzazioni no-profit in adesione ai principi di condivisione del sapere e di libero accesso, il progetto RepRap (Replicating Rapid Prototyper) che si prefigge di produrre una stampante 3D open-source in grado di stampare anche una copia di se stessa e proliferare.
Al centro di tutto dunque la cooperazione che genera innovazione e che fa secondo alcuni studiosi del 3D printing un apripista di una terza imminente rivoluzione industriale. Se la prima rivoluzione industriale ha visto le tradizionali forme domestiche e artigianali di manifattura soppiantate dalla più efficiente e standardizzata produzione in fabbrica il sapere degli artigiani, questa volta High-Tech o 2.0, sembra tornare centrale nella filiera produttiva.
Non scompare certamente il mercato in cui anzi si prevede raddoppi ogni anno per i prossimi tre il volume delle vendite delle stampanti 3d con un giro di affari che per il 2015 ammonta già a circa 4 miliardi di dollari con la crescita esponenziale anche degli investimenti nella ricerca sulle tecnologie emergenti nel settore di vendor come Hewlett-Packard. Un’economia dunque che cambia rapidamente nell’incontro tra la conoscenza collettiva, la cooperazione e la condivisione dei saperi, la rivoluzione delle ICT con profonde conseguenze sociali.
Editoriale pubblicato sul Numero 3 2015 di Archeomatica - Tecnologie per i Beni culturali