Perché la tecnologia ha bisogno dell’archeologia

Perché la tecnologia ha bisogno dell’archeologia

Probabilmente nulla più dello sviluppo tecnologico ha caratterizzato l’ultimo secolo. Dalle ricerche sulla cibernetica, che ebbero uno slancio incredibile durante gli anni della seconda guerra mondiale, e che coinvolsero i più brillanti matematici, psicologi, etologi e fisici dell’epoca, lo sviluppo tecnologico a supporto della società contemporanea non ha praticamente conosciuto battute d’arresto. Ogni elemento della nostra vita quotidiana è stato coinvolto da questo processo che ad oggi pare ancora inarrestabile: dalle comunicazioni all’igiene, dalla produzione alla conoscenza, dall’entertainment all’etica. Analogamente, ogni disciplina è stata irrimediabilmente coinvolta dalle evoluzioni tecnologiche e digitali.

Ciò che spesso si trascura è, tuttavia, l’impatto che queste discipline hanno avuto sullo sviluppo tecnologico. Nella sua dimensione più semplice, infatti, il progresso tecnologico nasce come risposta a specifici bisogni; bisogni che talvolta emergono all’interno delle stesse discipline che vengono poi chiamate ad identificare strumenti e soluzioni, ma che nella grande maggioranza dei casi, provengono invece da criticità ed esigenze che sono proprie di discipline altre, alle quali la tecnologia, in quell’interezza di specializzazioni che spaziano dalla ricerca dei materiali fino alla teorizzazione di sistemi di machine learning, cerca di fornire risposte. In questo rapporto di mutua evoluzione, il binomio archeologia-tecnologia pare essere tra i più proficui: avendo l’archeologia un campo d’indagine che per propria natura coniuga dimensioni di conoscenza pura a dimensioni che sono invece estremamente concrete, l’elenco di innovazioni che sono state sviluppate per l’archeologia, o che sono state adattate alle esigenze specifiche degli archeologi, è veramente lunghissimo.A ben vedere, per quanto possa sembrare paradossale, la disciplina che per propria natura rivolge la sua attenzione al nostro passato remoto, è probabilmente tra i primi centri di sperimentazione delle tecnologie innovative che vengono immesse sul mercato.


Pionieristico è stato l’utilizzo, da parte dell’Archeologia, degli strumenti afferenti alla robotica, con l’utilizzo di robot (non umanoidi) per perlustrare territori tendenzialmente pericolosi per l’essere umano; altrettanto pionieristico l’utilizzo delle prime tecnologie di intelligenza artificiale, per stimare la presenza di eventuali reperti archeologici nel sottosuolo analizzando le immagini satellitari. Considerazioni analoghe emergono dall’analisi dei rapporti tra archeologia e tecnologia sotto il profilo della valorizzazione del patrimonio: le ricostruzioni digitali, siano essere in realtà virtuale o in realtà aumentata, sono forse tra gli esempi meglio riusciti di utilizzi di tali tecnologie anche al di fuori del comparto del gaming. Eppure, il rapporto tra queste due grandi aree della conoscenza, questa grande amicizia tra coloro che guardano al passato, per capire quale sia il percorso che l’umanità ha svolto per giungere ai nostri giorni, e coloro che guardano all’oggi, per comprendere come influenzare l’umanità del futuro, è molto spesso più strumentale che di confronto.


I grandi produttori di tecnologia (hardware o software) partecipano alle fiere per l’archeologia per presentare i propri strumenti. Fiere in cui gli archeologi identificano le soluzioni che meglio risponderebbero alle proprie esigenze. In alternativa, i grandi centri di ricerca archeologica visitano le fiere tecnologiche per poter identificare strumenti che potrebbero essere adattati ad esigenze specifiche e contingenti. È invece più raro che archeologi e “digital maker”, intendendo con questa definizione l’insieme di esperti che partecipano alla costruzione di prodotti e servizi innovativi, si confrontino per identificare gli interrogativi sul nostro passato che meriterebbero un’azione congiunta. O per individuare servizi che potrebbero essere ancora più efficaci per la valorizzazione del patrimonio archeologico. Si tratta di una circostanza che, pur comprensibile sotto alcuni aspetti, è del tutto irrazionale se analizzata da altri punti di vista. Perché è senza dubbio vero che gli archeologi e i “digital maker” pratichino linguaggi molto distanti e altrettanto tecnici, ma è anche vero che l’archeologia è quella disciplina in cui la conoscenza riempie la distanza che esiste tra un sasso e un castello. Una disciplina che, affondando nei principi del metodo scientifico, restituisce alla società la magia e la creatività dell’essere umano nel corso dei secoli.


Tra gli anni 30 e 40 del 900, la Macy Foundation, negli Stati Uniti, organizzò quella serie di incontri da cui sarebbe emersa la cibernetica, i cui dettami sono ancora oggi alla base dello sviluppo tecnologico, e le cui intuizioni stanno ancora guidando lo sviluppo del nostro futuro. A quelle conferenze parteciparono, tra gli altri, psichiatri, economisti, antropologi, matematici, sociologi, pedagogisti, psicologi, neuoranatomisti ed ingegneri. L’unione di riflessioni così distanti fu alla base di un fenomeno che quasi cento anni fa anticipava le riflessioni e i timori che oggi emergono nei confronti dell’intelligenza artificiale. Era il 1948 quando il matematico Wiener, scrisse il saggio Cybernetics, or control and communication in the animal and the machine, e fu nel 1961, che, nella seconda edizione del testo, si inserirono gli studi sull’apprendimento e l’autoriproduzione delle macchine. 11 anni prima, lo stesso Wiener Introdusse la cibernetica con l'aforisma – l’uso umano degli esseri umani. L’intera nostra vita tecnologica è stata in qualche modo influenzata da quell’insieme di idee e riflessioni che nacquero dall’unione tra gli interrogativi di ambito matematico e gli interrogativi sorti in discipline umanistiche. Nelle sue incredibilmente vaste diramazioni, la tecnologia contribuirà sicuramente a costruire nuovi strumenti, che tuttavia saranno realmente funzionali allo sviluppo umano nella misura in cui essi rispondano ad esigenze concrete e importanti per la nostra specie.
Una specie, la nostra, che è legata indissolubilmente al concetto di cultura: la cultura, le rappresentazioni simboliche, sono alcune tra le dimensioni che più distinguono la specie sapiens dalle altre specie umane che hanno abitato il nostro pianeta.


Le domande che si pone l’archeologia possono quindi essere molto più interessanti della sola soddisfazione di “bisogni contingenti”. Perché l’archeologia può far emergere bisogni da cui nascano strumenti, ma può anche sollevare ipotesi, dubbi, domande, che possano influenzare il modo in cui questi strumenti vengano immaginati, costruiti, e le ragioni per le quali debbano essere prodotti. La tecnologia ha bisogno dell’archeologia non come “elemento di contenuto”, ma come elemento di senso. Ben vengano dunque gli incontri tra domanda ed offerta di prodotti e di strumenti, ma ancor più ben vengano quelle iniziative che siano in grado di fornire alla tecnologia delle domande cui non si può rispondere con una nuova app, o con un nuovo laser, o con qualsiasi altra “applicazione” che è nell’ordine delle cose venga realizzata. Soprattutto, l’archeologia sa bene quanto la tecnologia abbia influenzato le epoche. Ne conosce gli strumenti. Le evoluzioni. E può raccontare, dall’analisi degli strumenti che oggi abbiamo a disposizione, quale sia la società che stiamo costruendo. La tecnologia è umanesimo nella misura in cui ambisce a comprendere in che modo l’analisi della nostra storia, dai tempi più remoti a quelli più vicini, possa avanzare lo sviluppo del futuro.

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