Coraggiosa l’iniziativa dell’ICR di rilanciare uno studio tecnico sulle policromie e le dorature di arte del Gandhara, una delle espressioni culturali di intenso simbolismo che più abbiano suggestionato la tendenza all’astrazione dei movimenti artistici del Novecento, in un momento in cui il trattamento della documentazione fotografica di restauro è quanto mai soggetto alle alterazioni di software di fotoritocco, che rasentano la fotointerpretazione nella visibilità dell’oggetto artistico, al limite della fotografia artistica e della divulgazione pseudoscientifica.
Lo scorso 20 febbraio nella sede dell’ICR è stato presentato il volume monografico appena uscito (Volume1/2019) della ‘Rivista Restauro Archeologico’ sulla policromia dell’arte del Gandhara del Pakistan settentrionale e dell’Afghanistan Nord-orientale, nell’arco temporale compreso tra il I e l’VIII secolo d. C., che s’inserisce nella migliore tradizione pubblicistica dell'ICR. Un plauso che va innanzitutto ai relatori del Convegno “Polychromies and gildings in Gandharan sculpture” ed estensori del volume monografico della Rivista, tra i quali i curatori Luca Maria Olivieri e Simona Pannuzi, per aver affrontato anche teoricamente il tema del restauro della scultura policroma, che in Italia ha una lunga tradizione, sempre discussa in ogni ambito, che affonda le sue radici nella storia dell’integrazione dei reperti di scultura greco-romana anche con stucco dipinto, attestati a partire dal Rinascimento, nell’intento di ritrovare le tecniche originarie, comprese le miste, nell’uso di materiali, rivestimenti e pigmenti: in una parola presa in prestito alla radiodiagnostica, l’imaging funzionale anticamente esibito e culturalmente significativo per distinte platee di destinatari.
Nei termini della percezione cromatica, enunciando, campioni della tavolozza dei pittori, il blu e il giallo come primari dello spettro (ed. italiana Varese1995), nel 1808 Wolfgang Goethe scriveva nella Teoria dei colori: “In sede conclusiva è comunque meglio non esporsi al sospetto di essere inclini alle fantasticherie, tanto più che, se la nostra teoria dei colori incontrerà consensi, non le mancheranno certo, nello spirito del tempo, applicazioni e interpretazioni allegoriche, simboliche e mistiche.” Ponendo le basi della moderna teoria della luce, non si dimostrava avulso dall’idea di perfezione che solo quarant’anni prima Gotthold Ephraim Lessing aveva esaltato, soffermandosi sulla flagranza del candido Laocoonte. Sulla questione estetica della policromia dei grandi monumenti marmorei romani, compreso l’Arco di Costantino e la sua proposta di datazione all’età adrianea (1984), era stato pionieristico, alla fine del secolo scorso, l’intervento di restauro di Alessandra Melucco Vaccaro, che dall’ICR ne aveva avanzato la differenziazione dei marmi impiegati, dal giallo antico delle colonne, al pavonazzetto e al cipollino delle statue dei prigionieri Daci e dei loro plinti, al porfido delle specchiature dei tondi (Tortorella 2013), una tecnica di simulazione trionfale nei colori dell’arcobaleno. L’approccio al restauro archeologico dell’arte Buddista, illustrato dal volume monografico, è tutt’altro che idealistico, ma affonda analiticamente nella diversificazione dei materiali, dallo stucco (calcite), alla pietra scistosa (scisto), all’argilla, all’oro, e dei colori, anche i più preziosi, come il blu ieratico dei capelli delle sculture, come il lapislazzulo del Badakhshan e di Bukara (Uzbekistan), antica città della scienza, rintracciato nel blu oltremare delle miniature medievali e delle mestiche giottesche (Brandi 1949). Ma anche nella fruizione non solo cultuale, bensì sociale ed ideologica della cultura localizzata nella regione alla frontiera Nord-occidentale dell’India, che fu devastata nel V secolo dall’invasione degli Eftaliti, gli Unni bianchi (Ingholt 1960). Arte fondamentalmente autoctona e iconologicamente caratterizzata dall’appartenenza dei suoi tipi, oltre che alla centralità del Budda (566-486 a. C.), in veste di Gautama e di Siddharta (Bussagli 1967), il bodhisattva, all’induismo e alle divinità partico-mesopotamiche.
Pur sempre concomitanti alle componenti iraniche, ellenistiche e greco-romane, che nel Gandhara sono sembrate fronteggiarsi al crocevia geografico delle vie carovaniera di Samarcanda e marittima (Golfo Persico), attraverso le quali, durante il Medioevo, proseguirono gli scambi e i traffici commerciali tra Cina e Occidente. E’ questa frammentarietà, a dispetto di una superficiale univocità sincretica, che lascia intravvedere differenti personalità e tendenze stilistiche antinomiche tra i paradigmi di rigida frontalità e di illusività classica, ad aver portato fin dall’Ottocento l’arte del Gandhara a proporsi all’Occidente come una cultura moderna in senso stretto, al pari dell’arte romana, tanto sul piano creativo che su quello critico. La rivoluzione intellettuale apportata dall’ingresso delle sue opere esemplari nei musei europei è culminata letterariamente nel 1922 con il romanzo del Premio Nobel Herman Hesse, che ha appassionato intere generazioni, immergendo nel pragmatismo occidentale le avventure del carismatico protagonista. La ricerca è volta ad approfondire, anche nella stratigrafia, le indagini di scavo e su reperti provenienti dalle Missioni Archeologiche Italiane in Pakistan e in Afganistan, primi fra tutti i siti dello Swat (Pakistan) e la vulnerabilità dei suoi stupa, che vanta i Report di missione di Domenico Faccènna e di Giorgio Gullini a partire dal 1956 e in collaborazione con il Museo d’arte orientale di Torino, il Museo archeologico di Milano ed il Musée National des Arts Asiatiques Guimet di Parigi, che all’iconologia della figura di Buddha nel 2019 ha dedicato l’esposizione ‘Buddha. La leggenda dorata.’
Quest’ultima istituzione - partecipe nel secolo scorso delle missioni in Afghanistan di Alfred Foucher, il primo studioso a sottolineare l’arte del Gandhara alla confluenza dell’arte greca e, con l'ISMEO di Giuseppe Tucci (1933), tra le fondatrici della disciplina orientalista - porta il nome di Jean Baptiste Guimet che per primo nel 1827 trovò la formula di sintesi del blu oltremare. La rivista RA restauro archelogico presentata in questo 2020, muovendo, perciò dalla fascinazione del reportage della notizia di scavo all’intenzionalità catalografica degli artefatti, mira ad assimilarne il campo descrittivo a criteri e schede di documentazione microfotografica anche propri all’atlante chimico-mineralogico (fg.1), contribuendo a liberare l’argomento dal taglio di voce encicopledica, più suscettibile di assimilazione delle tecniche peculiari a quelle più generalmente mediorientali, che in parte aveva assunto finora. Giungendo ad evidenziare il metodo di lavoro dell’ICR del Mibact, anche sul piano internazionale, del tutto immune dal sospetto di enfasi nell’approccio divulgativo in open-access, cioé unicamente promosso per capolavori ed eventi nel trattamento dei dati dei beni culturali di link-data-cloud in linea, e rivolto invece intrinsecamente alla visualizzazione analitica della struttura dell’opera d’arte. Uno spaccato del tutto dissimile, ma altrettanto connesso all’operatività Web, in questo caso televisiva, dei beni culturali italiani, è visualizzabile antologicamente in streaming su You-Tube Mibact.TV da Cultural-on: l’ontologia dei luoghi della cultura e degli eventi culturali, redatto nel 2017 dal Laboratorio di Tecnologie semantiche (ISTC-CNR), progetto nell’ambito della valorizzazione del turismo italiano, in termini di sviluppo sostenibile dell’informazione culturale, con la partecipazione dell’ICCD, mirato a sviluppare una piattaforma degli Open-link-data.
Fonte: (Istituto Centrale di Restauro)