Analisi geochimiche aiutano a studiare la storia antica di Napoli

Il sito degli scavi archeologici dell'antico porto di Napoli si trova di fronte alla piazza municipale e a pochi metri sotto l'attuale livello del mare. A destra: un esempio di sezione stratigrafica campionata in questo studio. Si compone di vasi portuari le cui composizioni isotopiche rivelano la storia romana della città.
© Hugo Delile

Quasi duemila anni dopo l'eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei ed Ercolano sono state svelate nuove informazioni sulla storia antica di Napoli. Archeologi e storici si sono sempre interrogati sull'impatto dell'eruzione vulcanica sull'acquedotto Aqua Augusta, che riforniva d'acqua Napoli e i comuni limitrofi. Di recente alcune analisi geochimiche hanno permesso di stabilire un legame diretto tra il piombo che componeva le tubature dell'acqua dell'epoca e il sedimento intrappolato dal vecchio porto partenopeo.

Essi dimostrano in modo inequivocabile che il sistema idrico è stato effettivamente distrutto quando il Vesuvio eruttò nel  79 d.C., e che ci sono voluti quindici anni per sostituirlo.
Questi risultati sono stati pubblicati sulla rivista PNAS* il 16 maggio 2016 dal laboratorio Archéorient - Ambienti e società dell'Antico Oriente (CNRS / Université Lumière Lyon 2) e il Laboratorio di Geologia di Lione: Terra pianeti e ambiente (CNRS/ENS Lyon/Université Claude Bernard Lyon 1), in collaborazione con esperti internazionali.

In occasione della costruzione di una nuova linea della metropolitana sono stati condotti alcuni scavi archeologici nel porto antico di Napoli, ormai sepolto. Gli scavi hanno permesso di studiare gli strati di sedimenti che sono stati depositati sul porto antico nel corso dei secoli, su sei metri di spessore. Le analisi geochimiche di questi depositi sedimentari mostrano che l'acqua del porto è stata contaminata durante i primi sei secoli della nostra era da piombo proveniente dal sistema di approvvigionamento idrico di Napoli e dei comuni limitrofi. Questo piombo, componente principale delle canalizzazioni, si dissolveva a contatto con l'acqua e si diffondeva in diverse fontane e punti di approvvigionamento dei paesi per poi riversarsi nel porto. Lo studio della composizione isotopica di questo elemento, vale a dire la percentuale dei diversi isotopi del piombo contenuti nei sedimenti, ha permesso di rintracciare oggi eventi vecchi di duemila anni.

Le analisi hanno rivelato principalmente due composizioni isotopiche ben distinte, prima e dopo l'eruzione del Vesuvio del 79. Esse mostrano che il vasto sistema di approvvigionamento idrico del Golfo di Napoli è stato distrutto durante l'eruzione vulcanica e che le riparazioni sono state effettuate con un piombo estratto da uno o più distretti minerari differenti. Questo improvviso cambiamento del segnale del piombo, avvenuto quindici anni dopo l'eruzione vulcanica, suggerisce che i romani abbiano riparato l'acquedotto e le tubazioni in un tempo relativamente breve.

Questo studio permette anche di ricostruire le diverse fasi di sviluppo urbano di Napoli: dal 1° al 5° secolo d.C., il piombo è sempre più presente nel sedimento, lasciando considerare un ampliamento della rete idrica o un'intensificazione di questa rete in aree già dotate. Dall'inizio del 5° secolo, per contro, il sedimento è meno contaminato, rivelando che la rete idrica abbia subito ulteriori distruzioni a causa delle invasioni barbariche (presa dell’acquedotto per prosciugare la città), le nuove eruzioni Vesuvio nel  472 e 512, di epidemie o nel crollo economico e amministrativo di Napoli.

Questa lettura dell'inquinamento da metalli nei vecchi sedimenti portuali, che permette di tracciare la storia di un territorio, potrebbe essere trasposta altre civiltà e ad altre aree geografiche.

 

*A lead isotope perspective on urban development in ancient Naples, Hugo Delile, Duncan Keenan-Jones, Janne Blichert-Toft, Jean-Philippe Goiran, Florent Arnaud-Godet, Paola Romano, Francis Albarède. PNAS, 16 mai 2016. DOI : 10.1073/pnas.1600893113 (www.pnas.org/cgi/doi/10.1073/pnas.1600893113)

 

Fonte: CNRS

 

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