Canova, Ribera e Caravaggio

Canova, Ribera e Caravaggio

Con un affondo sull’Ecce homo di Caravaggio a Palazzo Bianco a Genova, Vittorio Sgarbi entra dalle pagine del Giornale nel dibattito sullo stile dell’artista, sostenendo l’opinione che vorrebbe ogni stile significante e per se stesso astraente dall’interpretazione in carne e ossa di un soggetto nel suo significato. La rivoluzione caravaggesca sta nel come dipingere qualcosa, che e’ fatto di colori, luci, linee e ombre, ma anche di emozioni stranianti, brutali o negative che siano.

Il rifiuto stilistico dell’Ecce homo di Genova, come del Narciso o del Ragazzo che monda una mela, ma anche della Maddalena e della S.Orsola, e la loro riconoscibilità, che ha fatto parte di una formazione storico culturale, meritano di essere discussi per se stessi quando entrano in scena. Il problema, se mai, e’ proprio questo: risalire alla loro comparsa nel dibattito critico, ritrovarne la documentata provenienza collezionistica, ricostruirne il trascorso letterario nei secoli, cioè i molti nomi che una stessa opera d’arte ha avuto dai tanti che ne hanno parlato nei contesti piu’ disparati, identificare le tele, i bozzetti, i progetti, i modelli, le incisioni e i contenitori che l’hanno restituite dalla memoria collettiva, piu’ spesso seduttiva che colta e al limite della falsificazione. Le opere d’arte hanno a che fare con il mercato, sempre oscillato dal gusto all’azzardo, sia personale che del momento, e nondimeno con una verità e una storia di fotografie e documenti, non sempre oggettive. Nessun soggetto e’ dato senza confronti e la sua ambiguità o la sua novità di rappresentazione sono altrettanti stati di diffusione e parametri da riscoprire, a volte legati ad una cronaca familiare, ad una vicissitudine biografica che ogni opera possiede nella coscienza di estimatori e detrattori, come e piu’ che ad una cronologia delle opere e dei materiali, sempre analiticamente soggetta ad una speculazione intellettuale, ad una fortuna nella storia della sua fruizione.
Nessuno pretenderebbe di dire che un’opera di Shakespeare sia o non sia autografa se messa in scena da un altro sceneggiatore: l’anonimato di un quadro e’ spesso dovuto all’interpretazione del soggetto da parte di un commentatore, che non e’ detto sia un altro pittore e anche perciò non sempre univoca, tanto se in collezione privata, quanto se esposta in una chiesa con scarsa visibilità o in un museo, fino a farne perdere alla memoria presente e passata i contorni di originale di qualcun altro.
Non sarà inutile dire che la Maddalena Doria era stata taciuta come tale e variamente intesa anche oltre la pubblicazione nel 1657 del Microcosmo di Francesco Scannelli, ma che l’iconografia che le e’ propria aveva fatto scuola: il suo assopirsi nel pianto e’ uno stato emotivo di profonda spossatezza che può definirla tramortita o estatica, isolata senza la figura di Cristo, com’era stata nei pittori Veneti, e con la testa piegata in avanti su se stessa com’era ovunque quella della Vergine Maria, nello scorcio mantegnesco che la fa sembrare accovacciata sulla sedia, com’è in parte la Maddalena inginocchiata di Antonio Canova all’Hermitage. Una ragazza spezzata, il cui ritratto avrà fatto coniare lo spunto drammatico della Maddalena penitente, colta nel deja’ vu di ogni pittore del secolo, e non solo. Senza contraddizione con Scannelli, che descriveva la Doria com’è, e cioè ‘una figura intera al naturale’, Bellori l’avrà detta ‘accompagnata dalla semplicità di tutta la figura’, definendo nello stesso tempo molti dettagli del dipinto, che non lasciano dubbi alla sua identificazione nella Galleria Doria Pamphilj (Vittorio Sgarbi 2015). Lasciano semmai insorgere perplessità sulla personalità della modella Anna Bianchini o Fillide Melandroni recentemente supposte - secondo Giovan Pietro Bellori era una modella incontrata per strada -, ma che avrebbe potuto essere invece Artemisia Gentileschi, pittrice alla quale e’ riferito piu’ di un soggetto di Maddalena, anche con la posa ostentata della testa rovesciata all’indietro (in collezione privata, Sotheby’s 2014) e con le mani dalle dita incrociate, un gesto esplicito di preghiera, non solo di appartato silenzio. Eppure, la Maddalena Doria, nemmeno taciuta dagli inventari Doria Pamphilj, ha conosciuto nel secolo scorso un’alternanza di pareri tale da metterla in secondo piano, nonostante una sua ambiguità iconologica con la passione di S.Orsola, attraversata in gruppi documentari, che solo negli anni Ottanta sono stati nella totalità riferiti al Martirio di S.Orsola di Palazzo Zevallos di Stigliano a Napoli, una volta identificato il soggetto fino ad allora frainteso allegorico di quest’ultimo dipinto, che era attribuito a Mattia Preti. In secondo piano almeno quanto la personalità di Lena Antognetti, Maddalena di nome, che il pittore per strada aveva probabilmente salvato in una retata poliziesca nel documento del 1604 che la voleva ‘ammantata’ con un ferraiolo, un mantello da prete.

La ‘Maddalena in estasi’, nell’esemplare ora portato da Vittorio Sgarbi come uno strillo nella mostra ‘La Maddalena. Caravaggio e Canova’ alla Gysotheca Canova di Possagno (Treviso), dove nacque Canova, con la testa piegata all’indietro, lo sterno scoperto, in stile ripercorre l’analoga emozione, ma di una copia eseguita dall’altra, a memoria, senza piu’ averla davanti, che potrebbe dirla un’estasi di qualsiasi altro soggetto mistico femminile o una passione che non ripete abbastanza, nella mollezza dell’abbandono, la suggestione dello scorcio di quella figura seduta. Le innumerevoli copie di questo secondo tipo possono spiegarsi non solo col fatto che non fosse semplice per gli imitatori visitare la Galleria Doria e accedere al dipinto originale e perciò con la competizione insorta tra i seguaci nell’abilita’ di farla propria, riproducendola a loro volta dalle copie dei primi a studiarla, tra questi Ludovico Finson per primo a datarla, ma anche con una maggiore ortodossia della Maddalena inginocchiata o distesa al sepolcro, semplificata in una piu’ che mezza figura, ma soprattutto riversa, supina. Sulle quali copie, censite alla metà del secolo scorso da alcuni studiosi con le dettagliate differenze iconografiche di questo tipo, come gli attributi del vaso di nardo, della croce, del rovo e del teschio, proprio ad opera di Mina Gregori era prevalsa nel 1984 la cosiddetta Klain, in collezione privata romana, ben distinta dalla figura eretta della Maddalena di Battistello Caracciolo nella raccolta Busiri Vici, dalla Doria, che sarà stata copiata piu’ volte anche da Nicolas Régnier. Difatti Sgarbi (Il Giornale, 6 maggio 2021) ha ora avanzato l’appartenenza a Michele Blando, che l’acquisto’ nel 1873, e un’ascendenza Colonna Carafa di Napoli della Maddalena in questi giorni in mostra, che per la cronaca si trova in collezione privata londinese. Il che non toglie che sulla tela esposta a Possagno non compaiano i rovi di rose della Klain, ma ancora una volta il teschio che era stato rivendicato dalla copia di Ludovico Finson al soggetto divenuto di Maddalena penitente: Caravaggio non era portato solo ad esaltare il proprio valore personale o a dimostrare la lettera degli attributi dei santi commissionatigli, quali che fossero, ma a far sì che quegli oggetti fossero quelli della vita quotidiana, per chiunque visti. Ora, e’ intesa autografa di Deodato Gentile la lettera del 29 luglio 1610 al cardinale Scipione Borghese, in cui si parla di una Maddalena e di due S.Giovanni, ed un biglietto sul retro della tela con la dicitura della sua destinazione finale da Napoli al cardinale Scipione Borghese, ritrovato da Mina Gregori sul dipinto esposto a Tokyo e a Parigi, del quale e’ nota altrimenti una vicissitudine collezionistica quanto meno rocambolesca, che ha reso critica la sua stessa identificazione autentica nel corso del Novecento. Ebbene, anche la sua estasi e’ prossima all’interiorizzazione del ‘Noli me tangere’, il riconoscimento da parte di Gesù Cristo risorto della donna mortale sua discepola, senza alcun dialogo. Un atto di fede nella Maddalena Doria, sorpresa nell’abito dismesso della prediletta al sepolcro, una commozione ancora sovrapponibile alla misericordia di Maria di Betania che unge i piedi di Gesù, li lava con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli.

Un soggetto e un attributo, il teschio, che Giovanni Michele Silos avrà descritto nel 1673 in un quadro di Maddalena nella Galleria Giustiniani, pero’ ribadendolo a Jusepe de Ribera, deciso indizio che la Klain non fosse stata Giustiniani (se una Taide di Silos fosse Fillide) e non che sia di Caravaggio lo stile devozionale del ‘Quia Tulerunt Dominum Meum’ che sempre interpreta la tela in mostra. Contribuiscono a chiarire il deliquio di Maria Maddalena al sepolcro due tele agli Uffizi (Palazzo Pitti) variamente riferite a Francesco Rustici e Rutilio Manetti, nelle quali compare la visione di due angeli ad assistere la consunzione della Santa semidistesa con gli attributi della croce e del teschio, emaciata e che indossa una tunica, senza suscitare ‘schiamazzo’ nel clero. Il soggetto delle due tele, anche avvicinate a S. Maria Maddalena de' Pazzi per la presenza degli angeli (Vincenzo Puccini, Napoli 1652 con dedica ad Ascanio Filomarino vescovo di S. Maria degli Angeli a Napoli)) appare essere, pero’, quanto mai appropriato alla palestinese Maria Egiziaca, che a tarda età era morta da eremita, soprattutto laddove l’unicità testimoniale della Resurrezione di Cristo di Maria Maddalena e’ respinta tanto dalla fede ortodossa che dalla luterana, come dalla musulmana e’ ignorato il suo operato di profetessa: non per questo i due quadri, con la testa rovesciata all’indietro, sono meno caravaggeschi o sono aniconici, pur essendo al lume di candela.

Maria al sepolcroMarie al sepolcro - Complesso monastico di S.Giovanni Lampadista, Monte Troodos - Cipro (affresco)

 


Dai piu’ recenti documenti e’ apparso al lume di notte e sdraiato all’indietro sul teschio l’esemplare, possibilmente già a Vaduz, nel 2014 riavanzato dalla Gregori ed esposto al Jacquemart-Andre’ di Parigi nel 2018 - con una diversa cornice dall’attuale in mostra - che non e’ appartenuto alla raccolta Klain. La cornice più grande del quadro ora a Possagno scopre la tela, lasciando intravedere lo scritto ‘Madeleine’ su un cartiglio alla base della tela, posticcio titolo della prassi monastica di definire i ritratti dei Santi. Sgarbi è convinto che non sia la stessa Maddalena, riferita da Didier Bodart originale di Ludovico Finson nel 1984 in collezione Mariano Croce a Roma, pubblicata a Giovanni Battista Caracciolo da Vincenzo Pacelli (2002, figura 87) in collezione privata napoletana e in cui ora appaiono restaurati e lumeggiati i capelli e, chiaramente, alla base del dipinto, la dicitura 'XVIme siècle, Sainte Madeleine'.
Sarebbe difficile d’altra parte negare che l’Epigramma 216 della Maddalena piangente di Ribera Giustiniani della Pinacotheca di Silos si riferisca alla Maddalena appoggiata sul teschio nell’inventario di Benedetto Giustiniani del 1621, come anche che questa data sia la prima citazione iconografica e archivistica di una tela come quella, oltre alle date del 1613 e del 1620 segnate sulle tele firmate da Ludovico Finson e da Wybrand de Geest. La nota inventariale del 1638 che attribuisce una Maddalena Giustiniani a Caravaggio di per se stessa non consente di affermare che fosse o non fosse questo il soggetto di Maddalena: nemmeno di smentire che fosse di Nicolas Régnier, frequentatore della Galleria Giustiniani, la copia della Maddalena Doria pubblicata nel secolo scorso in collezione Boscarelli a Milano da Rossana Bossaglia, del quale la Galleria annoverava almeno due esemplari. E’ possibile invece dire che i Giustiniani possedevano anche il ‘Quia Tulerunt Dominum Meum’ con la Croce del Monte Calvario di Gerolamo Wierix (Andrea Donati 2015) che era nella raccolta nel 1673 e nei primi anni dell’Ottocento.
Il fatto che sia universalmente dimenticato che la Presa o Cattura di Cristo a Dublino fosse il dipinto del museo di Edinburgo, acquistato nel 1802 al principe Giuseppe Mattei a Roma dal collezionista scozzese Hamilton Nisbet come copia da Caravaggio di Gherardo delle Notti, non documenta certo che questa tela, al suo ritrovamento ancora dotata di cornice e cartiglio con la dicitura ‘Gherardo delle Notti’, altra prova che fosse la Nisbet, non sia nello stile di Caravaggio, poiché al pari della copia di Odessa, che non ha un protocollo di provenienza italiana, vero o a posteriori che sia, nemmeno ottocentesco, ne identifica altrettanto senza variazioni il soggetto del Tradimento di Giuda. Al punto tale, la seconda, da essere stata oggetto di un facile furto negli scorsi decenni e di un successivo ritrovamento a Berlino, allo scopo di produrla sul mercato come autografa, laddove non sarebbe piu’ stata sufficiente la parola di molti critici nemmeno a dirla coeva a Caravaggio nel nucleo di recente formazione del Museo di Odessa. Altrettanto potrebbe dirsi delle copie di Valencia, di Budapest e perfino di La Cruz in Bolivia, non differenti nello stile, ma nell’efficacia di visibilità della scena, anche se conservate e peraltro giunte alla notorietà come ‘Bacio di Giuda’, tassonomia del soggetto estranea alla documentazione familiare dei Mattei. Quello che la Presa di Cristo di Palazzo Pitti (Uffizi, Firenze) ha, invece, e’ una certa rarefazione alternata all’ispessimento materico nella luce della tela, stilema di Caravaggio, comune alla Maddalena Doria, oggi manipolabile fotogenicamente con un algoritmo, un altro pregiudizio sull’impasto cromatico, solo nella preparazione accentuatamente rossastro, che si aggiunge alla sorte di originale praticamente inaccessibile, protetto agli sguardi che non fossero dei possessori, vecchi e nuovi, e dei propri esperti, molto più che secolare.
Per quanto riguarda la Galleria Borghese, le valutazioni di fine Ottocento dei suoi dipinti, riportate da Vittorio Sgarbi, hanno il nome di Giovanni Piancastelli e non potrebbero certo non dirsi accademiche e risentire piuttosto del giudizio sul pittore, non proprio disinteressato, oltre che informato, di Giovanni Baglione, piuttosto che di quello dei biografi Giulio Mancini, che aveva parlato di una ‘Maddalena convertita’, perciò nella sua opinione una peccatrice, e Giovan Pietro Bellori. Piancastelli aveva redatto una copia (Galleria Borghese) dell'Inventario della confisca del pontefice Paolo V del 1607 nello studio del Cavalier D'Arpino, che appartiene al Fondo Borghese dell'Archivio Segreto Pontificio, sul quale sono fondati gli studi del secolo scorso del patrimonio inestimabile della Galleria. Gli estensori del catalogo di Caravaggio nel Novecento, a partire dal nucleo di dipinti di questa galleria, di comune accordo sostennero che la Presa di Cristo all'orto Ladis Sannini a Firenze, oggi Bigetti in via Laurina a Roma, fosse una copia da Caravaggio: dire che, come vorrebbe forse Sgarbi, si tratti di un quadro nuovo per la critica, equivale a dire che è nuovo per lui (Ecce Caravaggio, 2021). Non sarà inutile ancora una volta ricordare che le copie di Dublino e Odessa sono quasi identiche anche tra loro e differenti dalla copia in collezione Bigetti (già’ Ladis Sannini, Firenze) come pure dalla Manfredi oggi a Tokyo, appartenuta al Castello di Commercy degli Asburgo Lorena e proveniente dal Palazzo Imperiale a Vienna e dalla galleria di Leopoldo Guglielmo d’Asburgo, Governatore dei Paesi Bassi, incisa e raffigurata tra Seicento e Ottocento con la pertinente attribuzione a Bartolomeo Manfredi dell’incisione di David Teniers del Theatrum Pictorium e archiviata come Cattura di Cristo. Non soltanto la copia di Manfredi della Presa di Cristo, quindi, aveva avuto una visibilità pubblica europea, attraverso la grafica e non solo attraverso gli innumerevoli dipinti e le incisioni che illustravano la Galleria di Leopoldo Guglielmo nelle sue vicissitudini dinastiche, anche maggiore dell’originale, ma nondimeno al pari di una delle Maddalene di Jusepe de Ribera. Miglior sorte in forza della quale potremmo dire davvero, come per la Maddalena nella Galleria Doria Pamphilj, che la Presa di Cristo di Caravaggio, oggi a Palazzo Pitti, non sia stata misconosciuta o fraintesa dai suoi antichi proprietari, ma, al contrario, nascosta come un tesoro, inopinatamente sottratto all’esportazione, perfino dagli Uffizi, museo al quale, uno dei pochi al mondo che avrebbe potuto permettersi un altro Caravaggio o un altro Tiziano, appetibili per ogni sovrano europeo, era arrivata nella seconda metà del Settecento.
Del resto, se i critici del Novecento, alla metà del secolo, hanno colto in questa estasi, soggetto del dipinto esposto a Possagno, una Santa Maria Maddalena di Caravaggio, l’enfasi di stile non sarebbe altro che la notizia di Bellori che il pittore ne avrebbe dipinta una mezza figura per la Cappella della Nazione Italiana della Concattedrale di San Giovanni Battista a La Valletta, Malta, di fronte a dove doveva essere il S.Gerolamo, ancora della Cattedrale. Non sarà vano aver detto che ce n’è sempre una nella chiesa, un sopraporta a figura intera distesa nel ‘Quia Tulerunt Dominum Meum’, che parla nuovamente dell’umile flagranza infranta della Maria Maddalena Doria Pamphilj. 
Certo sarebbe inutile negare che Antonio Canova conoscesse la celebratissima collezione archeologica dei principi Giustiniani, nel cui Palazzo, oggi sede del Senato italiano, avrebbe potuto vedere e quindi realizzare anche il gesso della figura intera distesa con la testa rovesciata all’indietro dalla Maddalena appoggiata sul teschio di Jusepe de Ribera: impressione mnemonica di getto, tolta alle estasi di Gian Lorenzo Bernini. Come accaduto, ma fortuitamente, a Wybrand De Geest e Finson con la tela della Maddalena, la stessa che sara’ pervenuta dov’è ancora oggi alla Galleria Doria Pamphilj, se era tornata a Napoli sulla feluca nel 1610 senza Caravaggio e se i due pittori si cimentarono copiando l’uno dall’altro nel riprodurla dal 1612 al 1620: Finson, con una redazione almeno, appena due anni dopo la sua morte. Testimoniava De Geest, scrivendo sulla propria tela, di aver voluto imitare Caravaggio, potrebbe dirsi fino a smentire la paternità e l’originalità piuttosto di Finson, che pure l’aveva firmata uguale, che di Ribera, il pittore che non solo aveva spesso replicato la ‘licenziosita’’ di Caravaggio, ma che a sua volta era stato tra i piu’ copiati del secolo. Tanto la firma di Finson quanto quella di De Geest, non potendo certo dirsi che si celassero nell’anonimato, distinguono due rispettive tele dalla Maddalena Giustiniani, in cui senza esitazioni Silos, eligibilmente, avra’ specchiato un’idea di Ribera e nella quale, tanto l’uno quanto l’altro avrebbero potuto copiarne a Roma un’impressione vivida. Tanto piu’ se e’ possibile che la famosa Fillide Giustiniani, perduta, fosse stato il ritratto storico di una giovane promessa, che nelia Maddalena avrebbe potuto immedesimarsi. Al di qua della lettera dei Vangeli, era l’immagine che della Maddalena avrebbe avuto una ragazza qualsiasi, che il pittore, che aveva dipinto la Santa in diversi quadri, a fianco della Madonna, di nuovo a capo chino e di fronte a Cristo, e che non aveva esitato a dipingere la stessa Maria Vergine in piedi sullo stipite della chiesa di S.Agostino nella Madonna di Loreto, amava piu’ di ogni altra: i suoi soggetti sacri sono ritratti, non ardimentosi stereotipi, i suoi crani non sono teste di legno e quanto ai capelli dai riflessi rossastri, che vagheggiano la perduta indole della dea Venere di una conversa, ci annoieremmo a contare le teste femminili dipinte nel secondo decennio del Seicento che non li avessero, tanto piu’ se sparsi sul trionfo barocco di un incarnato scultoreo, attrattivo perfino per Bernini e Canova, e proprio alla flessione irripetibile del collo della Madonna di Loreto, un’opera da sempre visibile nella cappella Cavalletti di S.Agostino, che Alexandre De Rogissart avrà detto, con un lapsus di evidenza scultorea, ‘michelangiolesca’. A meno che non si voglia dire che Canova, che nel 1815 recupero’ parte delle opere trafugate in Italia da Napoleone con il Trattato di Tolentino ai musei e alle chiese di molte città’, che aveva scolpito per molti nobili napoletani, avrebbe disdegnato di convincersi altrettanto di un Ribera. O che Silos, come molti scrittori italiani del suo secolo, a sua volta misconosciuto e identificato con il teatino Giuseppe Silos di Bitonto, l’unico che avesse scritto un trattato in versi sulle raccolte romane d’arte, fosse stato un autore pronto a disconoscere Caravaggio, lui che aveva ammesso di preferire la prima versione rifiutata del S.Matteo e l’Angelo della cappella Contarelli di S.Luigi dei Francesi alla seconda, così diversa, dimostrando, chiunque fosse, di conoscerle entrambe.

 


 Copia qui lo "short link" a questo articolo
www.archeomatica.it/{sh404sef_shurl}