Rianimare la “Città Nuova” di Antonio Sant’Elia: promesse e ambiguità di un esperimento in VR
Un recente articolo pubblicato su Digital Applications in Archaeology and Cultural Heritage (numero 39 del 2025 disponibile online dal 30 ottobre 2025 con il titolo Resurrecting Antonio Sant’Elia’s futurist vision: A journey through digital modeling and virtual reality, doi: 10.1016/j.daach.2025.e00473, autori Weinan Zhao e Alexander Hohmanpropone) propone di “resuscitare” la Città Nuova di Sant’Elia attraverso modellazione digitale e realtà virtuale. L’operazione è tecnicamente solida e ricca di potenzialità, ma solleva questioni non secondarie sul modo in cui il digitale si fa interprete – e non semplice traduttore – delle utopie architettoniche del Novecento.
Nel saggio dedicato alla Città Nuova di Antonio Sant’Elia (n. Como 1888 - m. in guerra, a Monfalcone, 1916) , gli autori scelgono un terreno scivoloso e, proprio per questo, stimolante: non la ricostruzione di un monumento perduto, ma la messa in scena immersiva di una città mai costruita, nata e rimasta nel territorio del disegno e del manifesto. La proposta di trasformare le tavole santeliane in un ambiente navigabile in realtà virtuale è, di per sé, un gesto concettualmente forte: sposta il digital heritage dalla rassicurante dimensione del “restauro” alla più instabile regione del “patrimonio non costruito”, dove ciò che si conserva non è un originale materiale ma un intreccio di linee, parole, immaginario e ideologia.
La scelta di concentrare l’attenzione sulla stazione ferroviaria come nodo paradigmatico della Città Nuova è convincente. È lì che si addensa la grammatica futurista della città verticale: piani sovrapposti, infrastrutture multiple, passerelle e viadotti che annullano la distinzione tra edificio e infrastruttura. La pipeline tecnica – dalla modellazione in Rhinoceros e Grasshopper, al texturing in 3ds Max, fino all’implementazione in Unreal Engine per la fruizione in VR – è descritta con accuratezza. Si percepisce un lavoro serio sulla scala, sulle proporzioni, sulla traduzione in volume di forme pensate originariamente per la carta. L’attenzione alla resa materica di cemento, acciaio e vetro, come pure agli aspetti prestazionali del motore grafico, restituisce un ambiente immersivo credibile, che non si esaurisce nell’effetto spettacolare.
Merita di essere sottolineato anche un elemento meno vistoso ma, sul piano metodologico, cruciale: il tentativo di distinguere ciò che nel modello discende direttamente dalle tavole di Sant’Elia da ciò che, inevitabilmente, è aggiunto per inferenza. La tabella che separa elementi “documentati” ed “interpretati” non è ancora un vero sistema di paradata, ma indica una consapevolezza: una ricostruzione digitale, soprattutto in presenza di un oggetto mai realizzato, è sempre un’ipotesi organizzata, non una rivelazione neutra dell’“intenzione originaria”. In questa direzione, l’esperimento si colloca nel solco delle riflessioni più avvertite sul patrimonio digitale, dove trasparenza delle scelte e dichiarazione dei margini di incertezza sono parte integrante dell’operazione scientifica.
Il coinvolgimento di un gruppo di studenti di architettura in un ciclo iterativo di test e revisioni introduce un’altra dimensione significativa. La realtà virtuale, lungi dall’essere un puro prodotto finito, diventa uno strumento di verifica: ci si accorge che alcune altezze non funzionano, che certi percorsi risultano opachi, che l’atmosfera è inizialmente troppo asettica rispetto all’immaginario futurista di una metropoli densa, rumorosa, quasi opprimente. Di iterazione in iterazione, l’ambiente si trasforma: luci, nebbie, gradienti cromatici sono corretti, i volumi di contesto diventano meno generici, l’intero dispositivo tende a incarnare meglio quella “città macchina” che Sant’Elia aveva evocato più come grido che come progetto costruttivo. È, a suo modo, una lezione importante anche sul piano didattico: la VR non come vetrina di fine corso, ma come laboratorio in cui ipotesi, errori e correzioni si sedimentano in forma spaziale.
Proprio perché la parte tecnica e laboratoriale è convincente, emergono con maggiore chiarezza alcuni limiti sul versante teorico. Il futurismo, anzitutto, è trattato quasi esclusivamente come repertorio di parole d’ordine – velocità, macchina, modernità – e non come fenomeno storico complesso, attraversato da contraddizioni politiche, da un rapporto problematico con il nazionalismo e il fascismo, da una lunga scia di appropriazioni e rielaborazioni nel corso del Novecento. La Città Nuova viene così isolata come paradigma astratto di radicalità modernista, mentre meno visibile resta il fatto che quel nome, quel progetto e quel lessico sono stati anche strumenti di militanza, come mostra in modo plastico il quindicinale torinese La Città Nuova. Sintesi del futurismo mondiale e di tutte le avanguardie, diretto da Fillia negli anni Trenta. Rievocare oggi Sant’Elia in VR significa inevitabilmente inscriversi dentro questa genealogia: il modello digitale non è un semplice omaggio “neutro”, ma una nuova tappa nella storia delle sue ricezioni.
Un secondo nodo riguarda lo statuto della realtà virtuale. Nei passaggi in cui la VR viene descritta come strumento “necessario” per comprendere davvero la logica spaziale della Città Nuova, affiora una forma di tecnodeterminismo un po’ ingenua: come se l’immersione tridimensionale potesse garantire di per sé una maggiore fedeltà all’idea santeliana. In realtà, la VR non è un canale trasparente che porta il visitatore dentro la testa dell’architetto; è un medium con un proprio linguaggio, con proprie opacità, con propri effetti di selezione. Ogni scelta su scala, materiali, illuminazione, punto di vista, persino sulle possibilità di movimento concesse all’utente, produce una lettura specifica del progetto. Il vero passo avanti consisterebbe forse nel progettare ambienti che rendano visibile questa stratificazione: versioni alternative del modello, livelli di ipotesi attivabili, visualizzazioni che mostrino al visitatore dove finisce la fonte e dove comincia l’interpretazione.
Anche il dispositivo di valutazione dell’esperienza utente, pur ricco di osservazioni qualitative, rimane ancorato a una dimensione interna al corso. Gli studenti sono interlocutori ideali per elaborare criticamente lo spazio, ma non esauriscono la gamma dei possibili fruitori: mancano lo sguardo del pubblico non specialista, quello dello storico dell’architettura, quello del curatore museale. È una carenza comprensibile alla scala di un caso di studio, ma che indica una direzione di sviluppo: se la VR vuole diventare davvero uno strumento maturo per la comunicazione e la ricerca sul patrimonio architettonico, occorre immaginare protocolli valutativi più articolati, capaci di misurare non solo l’impatto spettacolare, ma la qualità cognitiva e critica dell’esperienza.
In definitiva, il progetto sulla Città Nuova di Sant’Elia va letto per ciò che è: non una “resurrezione” definitiva, ma un prototipo concettuale che mette in tensione, in modo spesso riuscito e a tratti ancora incompleto, tre dimensioni diverse – la storia dell’architettura futurista, la teoria del patrimonio digitale, la pratica della modellazione e della VR in tempo reale. La sua forza è quella di spostare il baricentro del discorso: mostra che il patrimonio non coincide più soltanto con ciò che è stato costruito e si è conservato, ma comprende anche ciò che ha agito per decenni come pura immagine, come promessa o minaccia di città futura. La sua fragilità sta nel non spingere fino in fondo le implicazioni di questa constatazione, nel non tematizzare con sufficiente decisione le zone d’ombra – ideologiche, epistemologiche, metodologiche – che ogni “rianimazione” digitale di utopie novecentesche inevitabilmente riapre.
È precisamente su questo crinale che la comunità scientifica è chiamata a intervenire. Il lavoro qui discusso indica con chiarezza che possediamo ormai gli strumenti per attraversare in prima persona le città immaginate del secolo scorso. Resta da capire come farlo senza ridurle a scenografie interattive, ma trattandole come luoghi critici in cui interrogare, insieme, le promesse e le rovine della modernità e le responsabilità del digitale nel modo in cui oggi le raccontiamo.


