Paestum di Gabriel Zuchtriegel

E’ appena uscito, edito da Carocci, Quality Paperbacks, nella serie dal titolo I luoghi dell’archeologia, il volume tascabile di Gabriel Zuchtriegel, attualmente direttore del Parco Archeologico di Pompei, dedicato a Paestum, che apre ad uno dei musei campani più visitati al mondo, sorto sulle rovine di Poseidonia. La collana di Carocci, improntata all’approfondimento dei siti archeologici di statura universale nell’attualità, è diretta da Andrea Augenti, Daniele Manacorda e Giuliano Volpe.

Archeomatica ha dedicato una serie di articoli e news alla genesi ed allo sviluppo del Sistema Hera del Parco Archeologico di Paestum, ma è altrettanto convincente che il formato cartaceo del puro diletto della lettura resti insostituibilmente diffusivo della memoria del sito per ogni tipo di visita, gita o viaggio, anche da tavolino.

Del resto, la sintetica esposizione nel libro ha la capacità di riproporre in modo del tutto sorprendente un intero paesaggio, dettagliato fino alla suppellettile, attraverso la storia, anche più recente, della sua musealizzazione come punta avanzata della ricerca archeologica.

Per una volta si propone di consegnare al suo territorio l’intima natura di città del sito, sosta panoramica del Grand Tour, con i suoi templi di un pittoresco ineguagliabile, attraverso gli ultimi tre secoli di storia, al pari del Foro Romano e della Via Appia. Anche quando Pompei ed Ercolano erano ancora oggetto di scavo ed il mito moderno di Paestum, cominciato da tempo, non aveva rivelato in pieno la sua sacralità di antico nodo commerciale mediterraneo, mentre Stabiae stentava a riaffiorare sotto l’aspetto di città sannita fortificata dai romani prima di sparire con l’eruzione del Vesuvio del 79 d. C..

Strutturato nella chiave di lettura antropologica del passato, il libro non dimentica i miti pittorici e letterari di una civiltà profondamente innestata nella moderna cultura neolatina, restituendoci le sue favole più amabili nella forma catalogica di Vladimir Propp.

Espone in modo originale una Paestum cresciuta perennemente in bilico sulla catastrofe, che la sua fondazione col nome di Poseidonia da parte dei colonizzatori greci, avvenuta a più riprese oltre che massiva, ha comportato per le popolazioni insediate in quest’area del Mediterraneo. Ma insiste anche sulla perdita d’identità per gli stessi Greci, basandosi sull’aggiornamento consistente, attraverso lo studio dell’accumulo novecentesco di reperti, delle realtà stratificate dalle sue discutibili origini sibarite, passando attraverso l’imponenza dei manufatti raccolti, perpetuata oltre la riconquista lucana e frammentariamente evocata da quella romana.

In parallelo, solo da pochi decenni anche per gli Etruschi è stato avanzato un analogo registro d’impatto della cultura dominante della Magna Grecia nella vita quotidiana del territorio e delle popolazioni italiche. Le forme d’ibridazione tipiche del Mediterraneo arcaico del VII e VI secolo a. C. sottolineano nell’apporto invasivo il remissivo antagonismo della rinascenza periodica del canone greco da una qualche altra primitività: popolazioni alternativamente egemoni quando pervasivamente dominate, ma a loro volta esportatrici di cultura. A questo proposito, sotto il profilo iconografico, la Tomba del Tuffatore del Museo Archeologico Nazionale di Paestum (480 a. C. ca.), scoperta nel 1968, sulle cui indagini archeometriche più recenti questa rivista ha pubblicato ancora una recensione, merita anche un raffronto alla Tomba della caccia e della pesca a Tarquinia, fuori dell’ambito regionale considerata non solo precedente, ma anche, sebbene analoga, disomogenea. Soprattutto laddove l’omoerotismo apparente a Paestum sia venato, antropologicamente parlando, dall’autodeterminazione del culto orientale della personalità, in un processo di divinizzazione del defunto, aulicamente ricongiunto all’avo.

Parafrasando Zucktriegel: “Di fronte al quadro più ampio della formazione delle scienze dell’antichità, questo libro inizia dove Winckelmann si è fermato.” Ricomincia, cioé, dal 1758, quando Winckelmann si era soffermato a Paestum e, attraversati Neoclassicismo e Romanticismo, ricomincia dall’oggetto magico della fiaba, materialmente trasportato dalla Mesopotamia a Gibilterra. Sempre partendo però dal rigore del campionario in situ che lo narra, anche nelle lacune della schedatura all’epoca del ritrovamento, come il vaso del Pittore di Afrodite con il Giudizio di Paride del Museo Archeologico di Paestum e Velia (fig.1).

 

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Fig. 1 - Pittore di Afrodite, Giudizio di Paride, oinochoe dalla Necropoli di Licinella, tomba n.13 (Museo Archeologico di Paestum e Velia)

 

L’oinochoe del museo dalla Necropoli di Licinella, tomba n.13, è un prodotto locale della ceramica a figure rosse della metà del IV secolo a. C. ed è analizzata da Zuchtriegel esemplarmente in tutte le sue sfaccettature.

Il racconto del mito di Elena fa parte del paragrafo narrativamente intitolato nel volume ‘Se una donna greca scappa con un barbaro’ e non impedisce di interpretarlo nel doppio rovescio della medaglia, e cioé ‘Se una donna di ‘Calavria’ scappa con un greco’. Proietta dalla lirica di Stesicoro (VI secolo a. C.), l’ibrido destino di Elena di Sparta nell’onirica ineluttabilità del culto di Afrodite, che, navigato da una sponda all’altra del Mediterraneo, è raffigurata in questo vaso barbaramente nuda sotto una raffinata veste trasparente. Anche Paride lo è (fg.1) - al pari dell’insuperabile nudo pittorico del Tuffatore che si slancia nel mare dell’omonima Tomba pestiana - sotto un corto mantello da pastore, e il suo berretto frigio, in questa oinochoe, sembra piuttosto l’elmo di un ardente re guerriero, certo il prezioso prodotto offerto nell’emporio del Tempio di Hera insieme al velato abito della dea, degno di Nausicaa.

Se la tomba non fosse stata scavata nel 1968 non vi sarebbe ritegno a dire che fosse stata visitata anche nell’Ottocento, forse avventurosamente, e, con il suo viaggio, avesse ispirato perfino il Girotondo di Matisse, ma sarà ancora inevitabile presupporlo avvenuto solo per Tarquinia.

Il fatto è che non è possibile fare a meno di confrontare l'oinichoe con l’anfora del Museo Archeologico di Paestum e Velia del corredo della Tomba N. 24 di Andriuolo, firmata da Phyton, che raffigura Elena che nasce dall’uovo, concepita pudica.

La tolleranza della cultura posidonia oltre la Locride e l’Eolia spinge alla ricerca della fantomatica Ecalia nell’affresco della Tomba a cassa n. 114 della Necropoli in località Andriuolo. Nella tomba il defunto sembrerebbe essersi identificato in Eracle, che, a discapito della croce greca uncinata su uno scudo, frutto di violazione clandestina nel 2007, se non del secolo scorso, combatte Eurito per rapire Iole nel bel mezzo della fatica e delle imprese della mandria di Gerione. La fatica in cui l’eroe pose le colonne, appunto d’Ercole, ai limiti geografici del Mediterraneo è dipinta in un sepolcro sigillato e segreto, che il bosco non bastava più a difendere.

Il motivo letterario che il virtuoso Eracle cardasse e filasse la lana con un fuso al posto di Onfale, camuffato da donna, se non riconoscibile materialmente a Poseidonia, era rappresentato nei mosaici romani di Lliria a Valencia alla fine dell’arte antica. Anche l’episodio di Iole del mito, se localmente radicato, dimostrerebbe altrettanto che non solo la manifattura tessile e metallurgica, ma inoltre l’allevamento del bestiame vi andassero di pari passo con la ceramica, la terracotta, l’apicoltura e lo sfruttamento della palma da dattero. E che non fossero, quindi, nella regione, prerogativa matriarcale o sacerdotale, ma appropriate ad Eracle divinizzato, un eroe. Il mito di Ercole e i Cercopi, tra i più significativi dei processi d’integrazione culturale, avrà trasmigrato dalle e alle coste, compresa la ionica, devota anche ad Elena di Sparta e la meridionale siceliota, di metopa in metopa, a Selinunte, digerito come uno dei più caratteristici prodotti agricoli delle regioni, che ne determinarono la toponomastica, il sedano silvano in nome della satira.

Nella città del santuario dorico (VI secolo a. C.), dedicato a Giunone Argiva alla foce del Sele, di fronte alla sponda di Enotria, che era Strabone, sempre uno storico greco, vissuto sullo scorcio dell’era volgare, a narrare fondato da Giasone, abitavano le Sirene. Strabone non esitava a dire che fosse occupato da popolazioni nomadiche, spiegando che bruto e barbaro significhino ribelle e fuggitivo proprio nel processo mnemonico, non violento, dell’integrazione culturale dei popoli della Campania, situata in Italia dalla leggenda del mare.

Che queste nazioni percorressero in lungo e in largo tutto il mare secondo i flussi migratori dei pesci e degli uccelli sono il mistero e la sapienza della preistoria del cabotaggio fenicio che aveva raccontato Erodoto. Non è certo come chiamassero questa terra, ma è certo che Strabone la chiamasse Italia. 

Spunti tutti convincenti del fatto che la fruizione di Zuchtriegel, ora da efebo offerente ora da formidabile oplita, sia non solo eunomica, in questo agile libro come nella visita di Paestum che ha saputo realizzare - cosa ancora più rara, senza barriere e pregiudizi alla diffusione del contatto concreto e vitale con l’arte - ma realmente ergonomica.

 


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