A Carnevale, si sa, ogni scherzo vale. Roma non ha bisogno di esercizi di stile, né di scenari di grande richiamo per affermarsi come capitale del turismo, e tanto meno come Smart City, ma se vi capiterà di passeggiare nei giardini della Rupe Tarpea in Campidoglio, da quest'anno a Villa Caffarelli vi sfilerà davanti un imponente carro in maschera: la statua di Costantino imperatore appena arrivata dal palazzo della Fondazione Prada di Milano (fig.2).
Se Malagrotta non basta, d'ora in poi nei giardini della villa non ci saranno più giovani artisti a disegnare la città e bambini che giocano, ma un gigantesco ecomostro di gesso, polistirene, resina e polvere di bronzo a spaventare i turisti che, per avventura, fossero riusciti ad arrivare al suo ombelico ed a non accalcarsi in fila all'ingresso del Pantheon. Qualunque sia l'amministrazione virtuosa che ne abbia sostenuto l'ideazione vent'anni fa e infine l'abbia installata a Milano (avrebbe potuto farla della dimensione di un pugno, fra parentesi), non è biodegradabile e non è noto se nel piano di riuso del particolato derivante da tessuti indistruttibili prodotti dalla diabolica industria di abbigliamento è previsto anche lo smaltimento nella raccolta differenziata, dal momento che a Malagrotta non ci sarebbe posto e potrebbe accadere di doverla rispedire al mittente, in Olanda. Tutt'altro che una politica di ecosostenibilità faticosamente intrapresa da istituzioni e cittadini romani e che consisterebbe nel produrre plastica il meno possibile, anche nel settore tessile e non solo in quello dell'imbottigliamento delle bevande e delle attrezzature spartitraffico.
I frammenti di marmo del Colosso di Costantino (fig.3, 4 e 5) che il plasticone vorrebbe rappresentare, dai secoli passati sono conservati nel cortile del Portico della Dea Roma nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio e, volendo, si possono vedere dall'esterno anche senza entrare nei Musei Capitolini, sempre che non vi si affollino i visitatori in attesa di fare il biglietto. La sua ricostruzione non solo per i costi, le dimensioni e i materiali altamente inquinanti, di cui è composta, apre molti interrogativi, oltre che per la sua futura destinazione - che potrebbe essere tra i carri di Carnevale fuori dell'Oasi del Porto di Traiano nel Comune di Fiumicino - anche per la suggestione della storia artistica dell'oggetto che evoca in modo così ingombrante e perentorio la finzione disneyana e foriero di danni irreparabili negli spazi sempreverdi della Roma inenarrabile, tra un vespasiano e l'altro.
In realtà il trionfo dell’imperatore Costantino era stata una delle pagine più tragiche e vili per il principio di tolleranza nella storia culturale della Roma imperiale: il tradimento della guarnigione dacica di Massenzio, gli Equites singulares, che nella campagna per la successione decisero della sorte della sua fazione, nella battaglia di Ponte Milvio del 312, passando dalla parte di Costantino. Il voltafaccia che lo aveva portato alla vittoria fu poi drasticamente punito dal vincitore sciogliendo la milizia ed eliminando fisicamente i suoi membri e le loro famiglie: le loro spoglie, con tutte le insegne e la pompa del trionfo furono sepolte nel cimitero del Mausoleo di Sant’Elena.
Erigere un colosso aveva significato suggellare la legittimità della propria discendenza diretta, rappresentandolo somigliante al punto da confondersi con l’iconografia di Costanzo stesso (fig.5). Non soltanto nelle monete, difatti, l’identità del frammento colossale della statua è stata alternativamente riconosciuta tanto al padre quanto al figlio naturale, dimostrando che si trattava di un cliché ieratico al punto da incarnare il potere supremo del Sole divinizzato, da opporre a qualsiasi tetrarca o usurpatore futuro del comando dell’impero e della sua forza finanziaria. Immaginarlo seduto sul trono, non tanto al pari di Giove Capitolino, ma alla stregua dello Zeus criselefantino di Olimpia, sarebbe stato in parte in contraddizione con il volto apollineo e riccioluto, con cui rielaborava la fisionomia del preesistente tipo ‘adrianeo’ del colosso, tanto da divenire noto attraverso i secoli come il Colosso di Nerone, e sarebbe equivalso a mostrarlo giudice, invece che quale il dominatore assoluto del globo che voleva apparire, paragonabile al Sole. Molteplici sono le ricostruzioni dei secoli scorsi che, fino a Georges Ernest Coquart, nel 1863 architetto dell’École des Beaux Arts di Villa Medici, lo mostrano in piedi (fig.1) e con il suo diadema svettante all’altezza del Tempio di Venere e Roma, di fronte all’Arco di Costantino e sul fianco della Basilica di Massenzio, edificio di tipo civile. Nell’abside centrale della Basilica doveva trovarsi seduto invece un colosso più piccolo, la cui testa è forse quella in marmo lunense trovata negli scavi del Foro di Traiano nel 2005, alta sessanta centimetri, eccedente le dimensioni della testa della statua della Dea Roma in Campidoglio, che doveva invece occupare l’abside occidentale della Basilica. La statua del Sole, anche se nuda, non è chiaro se fosse stata realizzata interamente di marmo, o con tecnica acrolitica di parti in legno dorato per alleggerirla (come i fori sopra il ginocchio destro sopravvissuto tra i frammenti, sembrano mostrare).
La conformazione anastilotica che si è voluta dare alla finta statua risulta essere non del tutto credibile, né per l'una, né per l'altra scultura e sarebbe stata preferibile una rassegna delle testimonianze che attraverso i secoli ne hanno restituito in parte la memoria. I frammenti, infatti, appartengono ad almeno due differenti colossi - dentro il perimetro della città i colossi erano sette - poichè vi sono due mani destre, entrambe con l'indice puntato, dal momento che tre dita del pugno stringevano probabilmente uno scettro o le briglie di una biga, mentre la sinistra aperta reggeva un globo, che non era dorato, ma, molto più piccolo in proporzione di un pallone: qual era la sfera di porfido rosso, anche questa conservata ed esposta, un pò defilata nel vano scale, nel medesimo Cortile dei Conservatori (fig,4) e che rappresentava il mondo nelle mani del nume.